martedì 31 luglio 2012

Daniel Dyler e le avventure nelle Terre di Mito. II- L'inizio di una straordinaria avventura




«La luce ti ha battuto sul tempo, ma per poco!» esclamò Daniel, udendo il toc toc dell'amico alla sua porta. Era ancora sdraiato nel letto, sotto le coperte, ma con gli occhi già aperti da qualche minuto. Attorno a lui regnava ancora il sacro e delicato silenzio del mattino, in cui ogni piccolo suono, sia esso un fruscio generato dal vento, il drin di un telefono o l'eco di una voce anche lontana, par essere un rumore violento, insopportabile per le orecchie di chi, ancora assonnato, cerca rifugio al di sotto del proprio cuscino. Poco prima aveva tuttavia sentito Jake che parlava con sua madre, al piano di sotto, e si aspettava che l'amico lo avrebbe raggiunto a momenti. «Hey Daniel, tanti auguri!» esclamò Jacob non appena fu entrato nella stanza ancora semibuia, con le finestre chiuse e le tapparelle quasi del tutto abbassate. Daniel ringraziò e, dopo essersi strofinato ben bene gli occhi e aver gettato a terra il cuscino, che al momento del risveglio si era trovato tra le braccia, scattò in piedi. Malgrado fosse il giorno del suo compleanno e si sentisse devvero molto emozionato, per lui alzarsi la mattina presto costituiva sempre e comunque un arduo problema. 

 La scuola iniziava alle nove e, come tutti i giorni sarebbe stato molto difficile arrivare in orario alla prima lezione. «Abbiamo la Forsaidh tra poco più di un quarto d'ora, dobbiamo sbrigarci...» disse Jake, mentre alzava la tapparella, facendo entrare la pallida luce del mattino. «Ma che bella notizia!» esclamò ironico Daniel, che indossava ancora il suo pigiama invernale azzurro con impresso il disegno di Paperino. «Dobbiamo anche pensare ancora alcune cosette per oggi pomeriggio... Stavo pensando di cantare qualcosa, magari utilizzando una base musicale fatta al computer, che dovresti riuscire a procurarmi tu... Sai che mi piace cantare! E piace anche a Jessica... A proposito... Ho saputo che oggi ti chiederà di ballare... Mi raccomando, non fuggire su un altro pianeta adesso che te l'ho detto eh! Calma e sangue freddo! Capito "Iceboy"!» stava proseguendo, con tono sempre più ironico, quando fu interrotto da Jake, che, guardando fuori dalla finestra, notò qualcosa di insolito. «Ehm, ci sono due cavalli nel tuo giardino, due cavalli bianchi...» disse e poi, cominciando a balbettare, «A-alati, ca-cavalli alati, ha-hanno le ali! Daniel, caspita, le ali!». «Hai bevuto birra di prima mattina Jake?» ribatté l'amico. E ancora «O stai facendo una prova di recitazione? Ti riesce bene devo dire, potresti avere un futuro nel cinema!». «Vieni a vedere se non ci credi!» rispose Jacob, in uno stato a metà fra l'incredulità e l'imbarazzo. Il giovane Dyler, a questo punto, si avvicinò alla finestra, che si affacciava sul retro della casa. Non si sarebbe mai aspettato di vedere ciò che effettivamente gli apparve. Nel bel mezzo del giardino innevato vi erano due possenti equini, più bianchi della stessa neve, il cui manto rifletteva persino la luce. Avevano un'ordinata criniera argentea e dalle loro spalle spuntavano delle grandi ali, piumate e del medesimo nobile colore, che giacevano riposte sui loro fianchi muscolosi. «Non credo ai miei occhi...» sussurrò Daniel, fissando quella scena alquanto surreale e mettendo una mano sulla spalla di Jake. Quest'ultimo: «Non dovrebbero esistere i cavalli alati, non è forse vero Daniel?!». L'amico rispose «Beh, i Greci li hanno spesso descritti nei loro miti, tantissimo tempo fa... Lo so che è assurdo anche solo pensarlo, ma forse quegli animali mitologici, ehm, esistono davvero... E in questo momento si trovano nel mio giardino, proprio qui, a Morefield Lane. Ma più probabilmente, amico mio, abbiamo le allucinazioni! A meno che io non stia ancora sognando!». Jacob a questo punto gli diede un pizzicotto, per fargli capire che erano entrambi svegli. Quindi gli rammentò che nessuno dei due aveva assunto alcolici e che non potevano certo esistere le allucinazioni collettive da brezza invernale. 

 «Voglio andare di sotto e toccarle con mano quelle ali d'argento, finché non le tocco, non ci credo!» esclamò Daniel, rivolgendosi poi all'amico con tono ironico, sapendo che era un po' un fifone, «Seguimi, è l'occasione per mostrarmi il tuo coraggio da leone!». Jake annuì e i due scesero in giardino, evitando di farsi notare dalla signora Dyler, che si sarebbe senz'altro chiesta perché suo figlio stesse uscendo in pigiama con quel freddo. Volevano essere sicuri di ciò che avevano visto, che non si fosse trattato solo di una visione. Una volta fuori però i cavalli alati c'erano davvero, lì, nuovamente di fronte ai loro occhi. Daniel procedeva davanti a Jake, andando incontro a quei maestosi animali, sempre più affascinato e con mille pensieri nella testa. «Pegaso, tu devi essere Pegaso!» disse, rivolgendosi a uno dei due. A questo punto il cavallo scosse il capo e, poco dopo, si chinò sulle proprie zampe, abbassandosi, quasi volesse invitare il ragazzo a montare sulla sua schiena. Daniel, che stava letteralmente sognando a occhi aperti, non esitò un solo secondo e con un agile balzo montò sulla groppa del destriero, facendo leva con la mano su di una delle sue ali argentate, le cui piume, al tatto, si rivelarono morbidissime. «Che cavolo stai facendo, sei matto?!» disse Jake, disapprovando il comportamento dell'amico. Non fece praticamente in tempo a ultimare la frase che il cavallo su cui era salito Daniel si alzò in piedi e si mosse, dapprima lentamente e poi iniziando a galoppare velocemente verso la staccionata che cintava il giardino di casa Dyler. Con un gran balzo la saltò e corse via, nei prati innevati, scomparendo in un baleno. Jake era ammutolito, non aveva avuto nemmeno il tempo di reagire, non aveva levato alcun grido, anche se in un solo attimo era stato investito da un grande terrore, quello di perdere Daniel. Si accorse che nel contempo anche il secondo cavallo si era inchinato, come aveva fatto l'altro pochi secondi prima. Vinse ogni tipo di paura e senza esitazione alcuna montò anch'egli sull'animale, ben conscio di quello che sarebbe successo. Aveva un unico pensiero impresso nella mente, raggiungere Daniel. «Non vi permetterò di portarmi via il mio unico amico, qualsiasi cosa voi siate, dannate bestiacce!» urlò, mentre l'enorme equino si rialzava. Anche questo iniziò a trottare, superò agilmente la recinzione e galoppò via, correndo sempre più velocemente. Jake non sapeva dove si stesse dirigendo e ignorava dove fosse andato a finire il cavallo che aveva rapito Daniel. Ma era sicuro che entrambi sarebbero andati nella stessa direzione e questo gli bastava. Non aveva paura. Non ne aveva perché in quei pochi secondi non riusciva a pensare a null'altro che all'amico. Inoltre doveva reggersi forte, affondando le mani nell'argenteo crine. Sentiva molto freddo, ance perchè il corpo dell'animale su cui era adagiato non emanava alcun tepore, quasi fosse privo di vita. A un certo punto, quando ormai non distingueva più nulla del paesaggio che gli scorreva attorno, a causa della sempre più elevata velocità del galoppo, il giovane ragazzo dagli occhi di ghiaccio perse i sensi, abbandonandosi a un destino ignoto e misterioso. 

 Per Daniel e Jake questo non fu che l'inizio di una straordinaria avventura.

(M.T.)

venerdì 27 luglio 2012

Daniel Dyler e le avventure nelle Terre di Mito. I- Il compleanno di Daniel




 Era una fredda mattinata del mese di dicembre a Ullapool, un paesino costiero con poco più d'un migliaio di abitanti del West Highland scozzese. Da queste parti l'inverno giungeva molto presto e il clima era molto rigido per gran parte dell'anno. Oltre al gelo, dominava il silenzio, mentre le nubi e la nebbia donavano al cielo un colore grigio chiaro che quasi si confondeva con il bianco della neve, dei tetti delle case e dei giardini. Un timido alternarsi di voci proveniva dal piccolo porto, un tempo destinato alla pesca delle aringhe, laddove rompeva la quiete anche il rumore delle onde del mare, sempre parecchio agitato in questo periodo dell'anno. Dovevano essere quasi le nove e, ben nascosto dietro il grigiore delle nubi, era da poco sorto il Sole, dopo ore e ore di tenebre notturne, ancora più fredde e silenziose.

 Si trattava di un giorno molto particolare per i ragazzini di Ullapool, il quinto del mese di dicembre. Ricorreva infatti il compleanno di uno di loro, che si chiamava Daniel Dyler e abitava nell'ultima casa della Morefield Lane, una via piuttosto isolata, nella parte più settentrionale del villaggio. Si trattava del figlio del bibliotecario, Aristoteles Dyler, uomo di straordinaria cultura e molto apprezzato da tutti in quanto estremamete gentile e sempre disponibile ad aiutare gli altri.  Aveva sicuramente letto più libri di tutti i suoi concittadini messi assieme, sebbene non avesse mai voluto portare a termine gli studi universitari, interrotti tanti anni prima. Gli bastava la sua biblioteca, sulla Mill Street, e non avrebbe mai e poi mai lasciato Ullapool. Era un uomo simpatico e molto socievole, tanto che, nonostante fosse ormai vicino alla cinquantina, tutte le sere soleva ritrovarsi al pub, per bere una birra e chiacchierare con gli amici di vecchia data. Tutti sapevano che il signor Dyler adorava organizzare delle feste, come quelle che in estate animavano il paese, nelle quali si potevano mangiare le più tipiche specialità del West Highliand, prevalentemente a base di pesce, nonché bere diversi tipi di birra artigianale scozzese. Proprio perché la maggior parte dei festeggiamenti si dovevano allo spirito d'iniziativa di Aristoteles, il più grande evento della stagione invernale, dopo il Natale e il Capodanno, era proprio il compleanno del suo unico figlio Daniel. Come ogni anno si sarebbe tenuto un grande party a casa Dyler, che sarebbe durato dal primo pomeriggio alla mezzanotte, al quale avrebbero partecipato tutti i giovani del paese. La mamma di Daniel, Victoria, meglio conosciuta come "Vicky", avrebbe come ogni anno fatto tesoro delle proprie origini italiane, cucinando un'ottima pizza per tutti gli invitati. La festa era davvero molto attesa, tanto che da diversi giorni nelle aule del college non si parlava d'altro. I ragazzi volevano renderla ancora più divertente rispetto a quella dell'anno precedente e ognuno esponeva le proprie idee a Daniel. Anche i professori chiudevano un occhio, nonostante il continuo bisbiglio ostacolasse e non poco il corretto svolgimento delle lezioni. Quasi tutti i docenti del college di Ullapool facevano peraltro parte della cerchia degli amici del signor Dyler e sicuramente qualcuno di loro sarebbe passato a Morefield Lane per una birra durante la serata.

 Correva l'anno duemila e Daniel avrebbe spento sedici candeline. Era ovviamente il più eccitato di tutti, poiché sarebbe stato il protagonista della festa e avrebbe ricevuto applausi, cori di auguri e regali. La sensazione che si prova il giorno in cui si compiono gli anni è indubbiamete unica e difficilmente descrivibile. È come se per ventiquattro ore si diventasse proprietari del tempo. Questo era ciò che provava Daniel, al suo risveglio, quella mattina del cinque di dicembre. Era un ragazzo molto sensibile, che non smetteva mai di emozionarsi di fronte a tutto ciò che accadeva intorno a lui. Pur essendo molto vivace, allegro e ottimista, sempre pronto a ridere e scherzare, si dimostrava al contempo molto suscettibile di fronte alla tristezza, a tal punto da percepire come propria anche quella altrui. La sua partecipazione emotiva si traduceva in una percepibile agitazione, nel battito del cuore e nel tremore della voce. Talvolta non riusciva nemmeno a trattenere le lacrime. Quella mattina era tuttavia la felicità a dominare l'animo di Daniel, che aveva appena aperto gli occhi e, ancora sdraiato sul letto, si guardandava attorno, proiettandosi anzitempo, con il pensiero, nei festeggiamenti del pomeriggio. Finalmente aveva sedici anni, ed entrava in quella fascia d'età che, come gli diceva sempre suo padre, "è la più bella di tutta la vita".

 Daniel Dyler aveva ancora il classico volto da bambino, dai lineamenti molto fini, ed era del tutto privo di barba, al contrario di certi suoi compagni di scuola, che già si radevano. Il suo viso era dominato dai due grandi occhi verdi, che risaltavano sulla pelle chiarissima, tipicamente scozzese, se non fosse per l'assenza delle lentiggini. Il naso, leggermente aquilino, era identico a quello della madre Vicky, mentre i suoi capelli erano biondo cenere e molto folti. Una serie di grandi ciuffi coprivano la sua fronte, sino a infrangersi contro le sopracciglia, che erano di un colore leggermente più scuro. Per far sì che la sua voluminosa chioma apparisse un po’ più ordinata ultimamente aveva preso l'abitudine di pettinarsi “con la riga in mezzo”, secondo una moda molto diffusa all'alba del nuovo millennio. Daniel iniziava infatti a sentire l'esigenza di curare maggiormente il proprio aspetto fisico, anche se questo si scontrava con la sua pigrizia. «Per ben apparire si deve anche soffrire!» esclamava sempre Vicky, ridacchiando, quando lo vedeva davanti allo specchio, intento a domare la natura ribelle dei suoi capelli, o a esorcizzare la comparsa dei brufoli cospargendosi di apposite creme a base di succo di limone sulle guance e sulla fronte. Aristoteles invece si rivolgeva a Daniel chiamandolo "Dandy", poiché notava una certa somiglianza del suo nuovo look con quello sfoggiato più di cent'anni prima dallo scrittore inglese Oscar Wilde. Anche il sigor Dyler aveva dei folti capelli biondi, proprio come il figlio, ma da ormai molti anni li teneva assai corti, limitandone la voluminosità. E da tempo incoraggiava Daniel a fare lo stesso, ma senza mai avere successo. Non si può certo dire che i due si somigliassero e non solo per il diverso look adottato. Aristoteles era molto più alto di Daniel, aveva gli occhi azzurri e un volto spigoloso, con gli zigomi particolarmente pronunciati. Tutti in paese sostenevano che il ragazzo fosse la fotocopia della madre, con i colori del padre. Vicky aveva infatti una carnagione mediterranea e i suoi erano capelli lisci e neri, quasi come quelli delle parrucche delle antiche principesse egizie: "Nefertari! La mia Nefertari" le diceva spesso, con tono affettuoso, quel colto bibliotecario che l'aveva presa in sposa.

 Daniel condivideva con suo padre la passione per la letteratura e per la storia, adorava leggere e sognava di poter diventare, da grande, uno scrittore. Sin da piccolo era inoltre affascinato da tutto ciò che concernesse le civiltà antiche, in particolar modo quelle dei Greci e dei Romani. Era già stato a Roma, l'estate precedente, in vacanza con i genitori. Gli erano rimaste impresse le maestosità del Colosseo e del Pantheon, nonché le bellissime statue degli imperatori, custodite nei musei della città. Avrebbe voluto andare presto anche ad Atene, l'altra grande "capitale" dell'antichità, e aveva addirittura già imparato l'alfabeto greco, nell'ottica di questo tanto desiderato viaggio. «Solo se a fine anno non avrai l'insufficienza in matematica!» gli ripeteva continuamente Aristoteles, anche se ormai era decisamente rassegnato al fatto che suo figlio odiasse tutto ciò che avesse a che fare con i numeri. Non era certo un mistero ad Ullapool che Daniel Dyler, nonostante fosse riconosciuto da tutti, insegnanti compresi, come uno dei ragazzi più brillanti del paese, rischiasse ogni anno la bocciatura perché si ostinava a non aprire mai i libri di matematica. La stessa professoressa  della materia in questione, Lilian Forsaidh, non sapeva più come fare con lui. Era testardo, dannatamente testardo e si sarebbe ben meritato di ripetere l'anno, anche solo come punizione per questa sua testardaggine. Ma alla fine ce l'aveva sempre fatta a evitare il peggio. «Ti sei salvato in corner anche sta volta, eh Daniel!» aveva esclamato Vicky quando, l'estate precedente, era entrato in casa saltando e gridando «Promosso, promosso, anche la Forsaidh mi ha promosso!». «Quella buona anima di Lilly!» aveva aggiunto il signor Dyler, alludendo alla pazienza che quella donna aveva sempre mostrato nei confronti di uno studente indisciplinato come suo figlio. Ben conscio delle sue potenzialità e date come erano andate le cose l'anno precedente, Daniel era insomma sicurissimo che la prossima estate avrebbe potuto visitare la tanto amata Grecia e salire sull'Acropoli. «E dopo la maturità... le piramidi!» diceva di tanto in tanto, non smettendo mai di fantasticare sui viaggi futuri. Talvolta si sentiva rispondere «Finirai come Odisseo, caro mio...». Era suo padre, che amava sempre mescolare la saggezza con l'ironia. E se Aristoteles utilizzava molto spesso citazioni letterarie, sua moglie Vicky aveva invece un'altra grande passione, tanto bizzarra per una donna della sua età, quanto evidente e irrefrenabile. Adorava infatti il gioco del calcio ed era una grandissima tifosa dei Glasgow Rangers. La battuta fatta a Daniel in occasione della sua promozione non era quindi affatto casuale! Anche il giovane Dyler apprezzava il pallone e spesso ci giocava con gli amici, in un campo vicinissimo a casa sua, in fondo a Morefield Lane. Non poteva che tifare per i Rangers, visto che era stato ampiamente condizionato sin da piccolo. Diverse volte aveva accompagnato Vicky allo stadio di Glasgow, la città più grande della Scozia, per vedere le partite più importanti, in particolare il derby con il Celtic, che era peraltro la squadra con più sostenitori ad Ullapool. Riguardo ai signori Dyler, nessuno sapeva spiegarsi come potessero stare così bene insieme, pur essendo totalmente diversi. «È proprio vero che gli opposti si attraggono» commentava Daniel, quando pensava ai suoi genitori. Trovava inoltre estremamente buffo che suo padre portasse il nome di un filosofo greco, decisamente inusuale, se non fuori luogo, a Ullapool, ma che gli calzava a pennello, mentre sua madre, che da giovane era stata campionessa di nuoto e che conservava un bel mucchio di medaglie d'oro e d'argento, si chiamasse proprio Victoria. Non credeva troppo nel destino, non era nemmeno religioso, ma riguardo a certe strane coincidenze aveva sempre voluto riflettere e cercare delle spiegazioni, più o meno razionali, cercando di non escludere nulla a priori.

 Di fronte ai Dyler abitava la famiglia Reid, composta da William, di qualche anno più giovane di Aristoteles e di origine irlandese, sua moglie Diana e dal loro figlio Jacob, che aveva la stessa età di Daniel e frequentava la sua stessa scuola. Più che dei vicini di casa erano degli amici. Il signor Reid faceva il macchinista sui treni che partivano da Inverness, uno dei principali centri della Scozia settentrionale, che distava un centinaio di chilometri da Ullapool. Era spesso lontano da casa per lavoro, ma nei weekend liberi e soprattutto d'estate, durante le ferie, si ritrovava sempre con Aristoteles, la sera al pub, oppure per una gita sulla piccola barca da pesca che aveva ereditatato da suo suocero. Diana era nata e cresciuta ad Ullapool e conosceva Vicky sin da quando le due erano delle bambine. Erano sempre andate molto d'accordo e continuavano ad essere delle buone amiche. Ma il legame più grande era senza dubbio quello tra Daniel e Jacob, che erano a tutti gli effetti come due fratelli. 

 L'unico figlio dei Reid era un ragazzo molto timido e riservato, uno di quelli di poche parole. Non aveva montagne di amici, anzi gliene bastava uno, Daniel. Con lui non aveva alcuna paura e non esitava mai, con lui non era affatto un problema attaccare bottone e discutere di qualsiasi cosa, anche delle questioni più personali. Tutti in paese lo chiamavano "Iceboy", sostenendo che i suoi occhi color ghiaccio rispecchiassero appieno la sua personalità. Per Daniel, invece, era semplicemente "Jake". C'era chi interpretava i modi di fare di Jacob non come il frutto della sua timidezza, ma piuttosto come atteggiamenti snob. «Si sente superiore, non parla con noi...» mugugnavano di tanto in tanto Mark e Rob, i compagni di classe che occupavano i banchi dell'ultima fila in fondo a sinistra, proprio alle spalle dei due amici di Moerefield Lane. Daniel, che con loro non aveva un cattivo rapporto, cercava sempre di mediare, cercando di sfatare certi preconcetti sul conto di Jake. Tuttavia sapeva bene qual era la vera ragione del fatto che entrambi non sopportassero il giovane Reid. Quest'ultimo era infatti un fenomeno del nuoto e gara dopo gara, in qualsiasi stile, né Mark, né Rob, che facevano parte della medesima squadra agonistica, erano mai riusciti a batterlo. I due erano molto invidiosi perché le medaglie più prestigiose erano tutte di Jake. Era stata Vicky Dyler a portare Jake per la prima volta in piscina, insieme a Daniel, quando i due erano ancora dei bambini, volendo trasmettere loro quella che era stata la sua prima grande passione sportiva. Daniel non aveva affatto sfondato, anzi, nuotava ancora parecchio male, ma per lui era sempre un piacere accompagnare l'amico ad allenarsi. Inoltre lo seguiva sempre nelle gare ed era il primo ad abbracciarlo dopo ogni vittoria, seguito a ruota da mamma Vicky: «Eh bravo il mio campione!» esclamava lei, dandogli un bacio sulla fronte. 

 A vedere Jake c'erano sempre anche un sacco di ragazzine, che, posizionate in prima fila sugli spalti, non gli staccavano gli occhi di dosso nemmeno un secondo. Era infatti considerato il ragazzo più bello della scuola. Alto circa un metro e ottanta, aveva il classico fisico del nuotatore, con tutti i muscoli ben definiti, che parevano scolpiti nel marmo. Il suo viso era molto fine, i lineamenti molto dolci e la pelle abbastanza chiara, ma non ai livelli di quella di Daniel. Aveva i capelli neri, abbastanza corti e sembre ben pettinati, senza nemmeno un ciuffo fuori posto. I suoi occhi grigi avevano un taglio molto particolare, leggermente a mandorla, che, insieme alle lunghe ciglia, ne faceva oltremodo risaltare la bellezza. Anche le sue fan più accanite sapevano tuttavia che era pressoché impossibile, persino per le più carine di tutta Ullapool, riuscire a farsi notare da Jake. Con le ragazze era infatti ancora più timido e impacciato, tanto che a volte faceva addirittura fatica a salutarle. Dentro di sé era molto felice di vederle, agli allenamenti e alle gare, appostate sulle tribune a fare il tifo per lui, ma sapeva anche che non sarebbe probabilmente mai riuscito a trasmetter loro questa sua felicità. A volte chiedeva a Daniel di ringraziarle da parte sua: «Dillo, ehm, soprattutto a Jessica... che mi ha fatto molto piacere...» precisava, riferendosi a una biondina, di un anno più vecchia di loro, che reputava particolarmente carina e simpatica. 

 Jacob non usciva molto di casa, se non per andare a scuola e in piscina ad allenarsi, anche perché era appassionato di informatica e amava stare ore e ore davanti al suo computer portatile, che i suoi genitori gli avevano regalato per il compleanno, il tredici di febbraio. Era ormai divenuto un esperto navigatore in Internet e aveva costituito un proprio sito, tramite il quale intendeva instaurare amicizie virtuali con ragazzi e ragazze di tutto il mondo. Molti gli scrivevano e passavano i pomeriggi chattando con lui, anche perché in questo modo esercitavano il proprio inglese. Con gli amici del web era molto diverso rispetto che nella realtà, più spigliato e sicuro di sé, aperto e con tanta voglia di parlare e scherzare. Attendeva peraltro con ansia di comprare una videocamera da connettere al computer, per poter instaurare collegamenti video con i suoi corrispondenti. Daniel, che era abbastanza ignorante in materia di informatica, tutte le volte che accedeva al sito di Jake esclamava «Tu sei un genio!». «I genii non esistono Daniel, esistono le passioni e gli appassionati... Ognuno è un genio quando si applica in ciò che lo appassiona. La passione è forse l'unica dote innata!» rispondeva Jake. E poi il discorso, tutte le volte, si dilungava all'inverosimile. 

 Quella mattina di dicembre, Jacob si era alzato molto prima del solito, fremendo d'emozione per il compleanno del suo migliore amico. Era forse l'unico a sentire l'evento tanto quanto Daniel. Si era preciptato a casa dei Dyler e aveva fatto colazione insieme a Vicky, mentre al piano di sopra il festeggiato ancora dormiva. Aristoteles, invece, si trovava già alla biblioteca. Erano da poco passate le otto e mezza e Jake, salite le scale, bussò alla porta della stanza dell'amico. In uno zainetto nascondeva il suo regalo di compleanno, un vecchio libro scritto in greco, proveniente da Atene, che aveva comprato qualche settimana prima a Londra, in un mercato di oggetti d’antiquariato. Non sapeva cosa contenesse di preciso, perché non conosceva quell'alfabeto. Il commerciante che glielo aveva venduto, lo aveva spacciato per un libro di poesia, specificando «Questo libro è magico, caro ragazzo. Lo devi regalare a una persona a cui vuoi molto bene. Leggere queste poesie conferisce dei misteriosi poteri... Così mi hanno detto i mercanti di Rodi, che lo comprarono a Creta da mercanti che l'avevano comprato ad Atene...». Pur interpretando queste parole come le classiche balle di un venditore intento a spacciare per oro l'ottone della propria merce, ne era rimasto in qualche modo colpito e aveva deciso che quel libro sarebbe stato il regalo di compleanno di Daniel. Sapeva che, al di là della presunta magia, una vecchia raccolta di poesie greche gli sarebbe piaciuta molto. «Magari un giorno poi le tradurrà o vi trarrà ispirazione per scrivere lui stesso delle poesie...» aveva pensato «...forse è proprio questo il misterioso potere, l'ispirazione...». 

(M.T.)

martedì 24 luglio 2012

Essere non essere

Quale delle vite
mie 'si disunite
è quella vera,
oh maschera di cera
che m'avvolgi il viso
e mi doni il sorriso?
E io chi sono?
E v'è perdono
per chi non è uno,
per chi è Nessuno?
Essere o non essere,
una trama da tessere,
qual dilemma è questo
se d'Amleto mi vesto?
Vedo qual peccato 
sia aderire al fato,
sento il fioco fiato
dell'urlo disperato
del folle fesso
che mostra sé stesso
a un mondo cieco,
eterna eco
di corsi e ricorsi,
ferite e rimorsi,
banali spiegazioni
e pecore e leoni,
una giungla indaffarata
che è folla affamata.
E la vile presunzione 
dell'una e l'altra religione
sempre pronte a suggerire
ch'è bello anche morire.
Mio padre l'unico Dio
di cui son figlio io,
mia madre l'unica fede
in cui l'animo mio crede.
Crisi di valori?
Oh cari signori
state zitti per favore,
che fate solo rumore!
Se vivo in me rinchiuso,
ch'è fenomeno diffuso,
sarà che non mi piace
il vostro ieri che giace 
nel mio oggi di guerra
col cuore in pace sulla Terra!
E tutta questa psicologia
che mescola il miele con l'idiozia,
pur si levi di torno
senza mai far ritorno!
Cara Psiche, è Amore
il sentimento interiore
che scelgo fiero,
tra pazzia e mistero,
impeto e tempesta,
il battito nella testa
e uno sguardo perso
che vede l'universo,
con li occhi fissi,
verdazzurri abissi,
lucidi di emozioni,
nel buio due lampioni,
lucidi di magia,
specchi di fantasia.
Sono quel che penso
e celo l'immenso
dietro la muraglia
con cui vinco ogni battaglia.
Sono quel che creo,
infinito apogeo
d'un essere in divenire,
un creare a non finire.
Sono quel che apprendo,
il sapere a cui tendo
e la superba umiltà
di chi intende ma non sa.
Sono una farfalla,
una maglietta gialla,
indosso allegria e via... volo,
che non sono solo.
Son uno, nessuno e centomila,
parole messe in fila,
senza senso, ma in rima,
sono un dopo ch'è anche prima.
Chiamami Nemo
oh stolto Polifemo!
Chiamami schizofrenico 
oh conservatore endemico!
Chiamami pure aedo,
oh cervello in congedo!
Chiamami anche diverso,
oh uguale che hai già perso!
Chiamami giovane moderno, 
oh fallito al governo!
Chiamami infine blasfemo,
oh erede di Remo!
Chi mai visse
tante vite quante Ulisse?
E qual vista da falco
la folle mente di Donnie Darko,
geniale quindi strano
e imperfetto in quanto umano!
Siam poi sicuri che Omero
non vedesse che il nero,
lui ch'ha dipinto le scintille
sul dorato scudo d'Achille?
Quand'era Romolo sul trono,
nello spazio dei figli di Crono,
divino, vicino e lontano,
si fece entrare pure Giano.
Ipocrisia?
Oggi brutta malattia,
ma nell'Ellade antica,
che oggi se ne dica,
non fu che l'arte
del teatro, della parte
tragica dell'attore
che sul palco vive e muore,
comica metafora e residuo
della complessità dell'individuo.
Siamo tanti fuori,
praterie di fiori,
siamo molti dentro,
terremoti senza epicentro.
Accettiamoci tutti,
viviamoci tutti,
noi colori d'un mondo di fischi
e odori, noi quadro di Kandinsky,
irripetibili astrazioni,
indissolubili emozioni,
fuori o dentro la caverna
della conoscenza eterna!
Noi sani o matti,
noi cani o gatti,
orsù veniamo ai patti
e doniamoci soddisfatti
diritti e libertà,
poi ciascun viva come gli va!
Ma non venite a dire a me
come sarei se,
come sarei e perché:
del mio regno sono re
e non tollero l'indicazioni
nemmeno dei grandi campioni.
Non amo i consigli,
carote per conigli,
sono testardo
e se serve bugiardo.
A te, oh compagno di viaggio,
mi rivolgo, ch'hai coraggio,
lasciami andare, son di passaggio,
luce nel buio, Caravaggio.
Passerò in un baleno,
io Impero di Galeno!
Banale e prosaico
tassello del mosaico,
disincantato e laico
sabato ebraico,
in questa vita
che gradita
mi sfugge dalle dita,
quasi divertita.
Or Joyce m'assolva, lo spero,
ch'il suo flusso di pensiero
ho emulato,
disgraziato,
come quel Geordie ch'ha rubato
sei cervi, un reato
che per legge e per decoro
gli darà una corda d'oro.
Dunque essere
o non essere,
mezzo problema,
mezzo anatema.
Soluzioni diverse
di volta in volta emerse
si prendan per mano
e tendano invano
a un comprendersi sincero,
come due parti dell'intero,
l'una nell'ombra della luna
a cercar Fortuna,
l'altra forse più scaltra,
forse Cassandra,
che volta al sole
canta e non si duole
dell'inferno di cemento
di cui muto mi lamento
io ch'in sudate carte
do sfogo alla mia arte
e che la faccia mia segreta
do allo specchio che s'allieta
nel veder me senza rughe,
nel saper che mille fughe
e cento e più peripezie
potran farsi ancora mie.
Palazzo di cristallo,
armatura di metallo
e cuore di pietra
che sol un'altra cetra
potrà mai rifar vermiglio,
un tutto ch'è figlio
d'una strada ch'ho trovato,
casualmente ereditato,
chiamiamolo ancora fato,
perché sono nato.

(D.D)


sabato 21 luglio 2012

Luglio

Oh bella gioventù, unica e fugace,
mi riempi immensa di vivace vita!
La lucida mente s'abbaglia e tace,
 già saggia, ma per nulla appassita.

La luce del mattino avvolge ancora
un corpo ch'è puro e immacolato,
ma dove ardente un fuoco dimora
e da buon legno non pare appagato.

Apollo al domani con Hera è rivolto,
ma di Venere e Bacco l’impeto vivo
nessun Ercole può far che sia tolto,
finchè il mondo m’è ancor 'sì estivo.

Allor che fare? Andare o restare? 
Seguir Paride bello e dannato
o il buon Ettore dalle idee chiare?
Come ad Ilio, s’ha da lasciare al fato!

Mi bagnerò ancora nelle tue acque
e ne sfiderò mai domo il furore,
oh mar di Cipro ove vergine nacque
la dea che ora tormenta il mio cuore!

(D.D)

*Versione 2013





sabato 14 luglio 2012

L'allodola


Tornò a casa a malincuore
l'assai tenace sognatore, 
con mille pensieri in testa
come nubi in tempesta
e maledetto senz'assenzio
l'avvolse il buio del silenzio.

E pregò senza aver Dio
e sperò in tutto il suo io
che potesse durare ancora,
che potesse fiorire allora
quel che invece la realtà
mutava in ciò che non sarà.

La vittoria che sfuggiva
con il vento s'avvertiva,
ma sognò quel sognatore,
sognò un domani migliore.

Già era l'ultimo lor giorno
e, mentre tutto fluiva attorno,
del tempo spietata la legge,
tirannia dell'umana gregge,
consumava veloce la candela
e ammainava l'ultima vela.

E il ragazzo non lo vedeva,
e il ragazzo non lo sapeva,
forse nemmeno lo capiva,
che un amore via gli fuggiva.

Pulsava forse un cuore solo
e solo un'ala non è mai volo!
Sanguinava a goccia a goccia
quell'anima di fragile roccia
e si chiudeva in una fortezza
ormai priva di sicurezza.

Era giovane, come chi non sa
che ciò che perdi si piangerà,
Giovane, come chi non ha mai
perduto, e pur pianto ha assai.
Forse giovane per amare,
il ragazzo, sedeva a guardare.

E Amor che a nessun amato
fa tralasciar l'innamorato,
osservava quei due umani
a respirare 'sì troppo lontani
il medesimo ossigeno: vite
disegnate per essere unite.

Notava quelle alte mura
costruite dalla stessa Natura,
per farci sbattere addosso
i suoi figli, a più non posso.
Tenera carne contro le pietre
e fragile essenza di emozioni.

Restava un giro del pianeta
su sé stesso, umile meta,
come un valzer di due anziani
con la morte nelle mani,
come del film i titoli di coda
al cui flusso amarezza approda.

Restava solo un ultimo giro,
come d'autunno per il ghiro,
il tempo d'un plauso nell'aeroplano 
atterrato in un paese lontano,
l'attimo in cui la pronuncia s'ha
dell'accento su libertà.

E fu proprio in quel momento
ch'il sognatore con un lamento
desiderò ricevere in dono
un segnale di non abbandono
e lo chiese forte e deciso,
per dar nuova linfa al suo sorriso.

Guardò il soffitto come fosse cielo,
strinse il cuscino come fosse petto,
rimembrò dell'allodola lo zelo
nello svegliar senza rispetto
quegli infelici amanti di Verona
la cui storia il mondo emoziona.

Salutò i poeti uccisi dal dolore,
chi nel freddo d'una prigione
chi per sfortuna, chi per rancore,
chi avea perso l'ultima occasione.
E urlò al ragazzo, ancor vivo d'ardore:
"Stupiscimi amore, stupiscimi amore!". 

(D.D.)




domenica 8 luglio 2012

L'umano

L'umano,
animale strano
che unico si duole
al saper che si muore.

E qual onore
chiamar amore
il nostro istinto
credendo d'aver vinto!

Ma che bello un dipinto,
ch'emozione una canzone,
un abito succinto

o un racconto lontano,
il giocare al pallone
e il suono d'un piano!

L'umano,
un sogno mai vano.

(D.D.)


martedì 3 luglio 2012

Duna

La vita è equilibrio

precario
d'umane scelte, eterno bivio.

E infin non è che Fortuna
fugace,
quasi oasi, ma duna

in un deserto in cui tace
ogni eroe leggendario.

Non v'è alcun disegno
e noi paghiamo il pegno

per un briciolo di felicità
in un essere di casualità.

(D.D.)