martedì 24 luglio 2012

Essere non essere

Quale delle vite
mie 'si disunite
è quella vera,
oh maschera di cera
che m'avvolgi il viso
e mi doni il sorriso?
E io chi sono?
E v'è perdono
per chi non è uno,
per chi è Nessuno?
Essere o non essere,
una trama da tessere,
qual dilemma è questo
se d'Amleto mi vesto?
Vedo qual peccato 
sia aderire al fato,
sento il fioco fiato
dell'urlo disperato
del folle fesso
che mostra sé stesso
a un mondo cieco,
eterna eco
di corsi e ricorsi,
ferite e rimorsi,
banali spiegazioni
e pecore e leoni,
una giungla indaffarata
che è folla affamata.
E la vile presunzione 
dell'una e l'altra religione
sempre pronte a suggerire
ch'è bello anche morire.
Mio padre l'unico Dio
di cui son figlio io,
mia madre l'unica fede
in cui l'animo mio crede.
Crisi di valori?
Oh cari signori
state zitti per favore,
che fate solo rumore!
Se vivo in me rinchiuso,
ch'è fenomeno diffuso,
sarà che non mi piace
il vostro ieri che giace 
nel mio oggi di guerra
col cuore in pace sulla Terra!
E tutta questa psicologia
che mescola il miele con l'idiozia,
pur si levi di torno
senza mai far ritorno!
Cara Psiche, è Amore
il sentimento interiore
che scelgo fiero,
tra pazzia e mistero,
impeto e tempesta,
il battito nella testa
e uno sguardo perso
che vede l'universo,
con li occhi fissi,
verdazzurri abissi,
lucidi di emozioni,
nel buio due lampioni,
lucidi di magia,
specchi di fantasia.
Sono quel che penso
e celo l'immenso
dietro la muraglia
con cui vinco ogni battaglia.
Sono quel che creo,
infinito apogeo
d'un essere in divenire,
un creare a non finire.
Sono quel che apprendo,
il sapere a cui tendo
e la superba umiltà
di chi intende ma non sa.
Sono una farfalla,
una maglietta gialla,
indosso allegria e via... volo,
che non sono solo.
Son uno, nessuno e centomila,
parole messe in fila,
senza senso, ma in rima,
sono un dopo ch'è anche prima.
Chiamami Nemo
oh stolto Polifemo!
Chiamami schizofrenico 
oh conservatore endemico!
Chiamami pure aedo,
oh cervello in congedo!
Chiamami anche diverso,
oh uguale che hai già perso!
Chiamami giovane moderno, 
oh fallito al governo!
Chiamami infine blasfemo,
oh erede di Remo!
Chi mai visse
tante vite quante Ulisse?
E qual vista da falco
la folle mente di Donnie Darko,
geniale quindi strano
e imperfetto in quanto umano!
Siam poi sicuri che Omero
non vedesse che il nero,
lui ch'ha dipinto le scintille
sul dorato scudo d'Achille?
Quand'era Romolo sul trono,
nello spazio dei figli di Crono,
divino, vicino e lontano,
si fece entrare pure Giano.
Ipocrisia?
Oggi brutta malattia,
ma nell'Ellade antica,
che oggi se ne dica,
non fu che l'arte
del teatro, della parte
tragica dell'attore
che sul palco vive e muore,
comica metafora e residuo
della complessità dell'individuo.
Siamo tanti fuori,
praterie di fiori,
siamo molti dentro,
terremoti senza epicentro.
Accettiamoci tutti,
viviamoci tutti,
noi colori d'un mondo di fischi
e odori, noi quadro di Kandinsky,
irripetibili astrazioni,
indissolubili emozioni,
fuori o dentro la caverna
della conoscenza eterna!
Noi sani o matti,
noi cani o gatti,
orsù veniamo ai patti
e doniamoci soddisfatti
diritti e libertà,
poi ciascun viva come gli va!
Ma non venite a dire a me
come sarei se,
come sarei e perché:
del mio regno sono re
e non tollero l'indicazioni
nemmeno dei grandi campioni.
Non amo i consigli,
carote per conigli,
sono testardo
e se serve bugiardo.
A te, oh compagno di viaggio,
mi rivolgo, ch'hai coraggio,
lasciami andare, son di passaggio,
luce nel buio, Caravaggio.
Passerò in un baleno,
io Impero di Galeno!
Banale e prosaico
tassello del mosaico,
disincantato e laico
sabato ebraico,
in questa vita
che gradita
mi sfugge dalle dita,
quasi divertita.
Or Joyce m'assolva, lo spero,
ch'il suo flusso di pensiero
ho emulato,
disgraziato,
come quel Geordie ch'ha rubato
sei cervi, un reato
che per legge e per decoro
gli darà una corda d'oro.
Dunque essere
o non essere,
mezzo problema,
mezzo anatema.
Soluzioni diverse
di volta in volta emerse
si prendan per mano
e tendano invano
a un comprendersi sincero,
come due parti dell'intero,
l'una nell'ombra della luna
a cercar Fortuna,
l'altra forse più scaltra,
forse Cassandra,
che volta al sole
canta e non si duole
dell'inferno di cemento
di cui muto mi lamento
io ch'in sudate carte
do sfogo alla mia arte
e che la faccia mia segreta
do allo specchio che s'allieta
nel veder me senza rughe,
nel saper che mille fughe
e cento e più peripezie
potran farsi ancora mie.
Palazzo di cristallo,
armatura di metallo
e cuore di pietra
che sol un'altra cetra
potrà mai rifar vermiglio,
un tutto ch'è figlio
d'una strada ch'ho trovato,
casualmente ereditato,
chiamiamolo ancora fato,
perché sono nato.

(D.D)


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