giovedì 20 dicembre 2012

Sogno di un giorno di metà autunno





C’era una volta un ragazzo che racchiudeva la propria normalità nello scrigno dei sogni d’un bambino e delle incognite di un adulto. Capiva di non capire, sapeva di non sapere. Era stato educato a provare tutto ciò. Sentiva la fame di Paride così come la sete di Ulisse, anche e soprattutto perché non era nato a Ilio e nemmeno a Itaca, bensì in una terra lontana, sfiorata appena dal bacio millenario delle grandi civiltà antiche: le dolci e amare Alpi dei Reti, custodi delle più segrete emozioni della neve, della spiritualità delle aride rocce e dell’indiscussa rettitudine degli abeti.

Figlio di impervie e amene valli, aveva imparato dalle acque dei torrenti, nate lassù, tanto vicino alle stelle da poterle accarezzare, che tuttavia allargano sempre più i loro orizzonti, coccolate dai versanti e dai ricordi, sino a scorrere via, verso la pianura, a cercare il lago, il mare, l’uomo. Queste chiare e fresche acque non dimenticheranno certo la propria Itaca, ben ferma in una via del ritorno naturalmente tracciata dai salmoni. Ma cercheranno sempre un qualcosa di infinito, si asciugheranno nel viaggio bagnando gli incroci di sguardi.

Fu così che quel ragazzo, appresa la voglia di ammirare il mondo e consapevole di non voler frenare l’armonia del proprio flusso, si trovò quasi per caso a pochi metri dall’equatore. Così pensava, perché non aveva idea di cosa fossero le distanze. Così sbagliava, perché non aveva mai dato retta agli ammonimenti del mappamondo, nel tempo in cui le opinioni più sagge sono quelle apparentemente mute. Non era poi troppo lontano quando scoprì la Calabria, non senza qualche ateo timore nei confronti del caso. L’autunno era ormai inoltrato, pochi giorni dopo le idi di ottobre, nell’emisfero boreale come in una civiltà moderna tacitamente disillusa, ma comunque alla ricerca di un’estate di San Martino: non si erano mai conosciute delle primavere che non fossero precedute da un inverno! 

Della Calabria sapeva ben poco, gli pareva dispersa da millenni e relegata ai libri di una storia che ancora parlava il greco. La sentiva nominare di tanto in tanto, ma non era che cronaca nera. E il ragazzo aveva troppa paura per ascoltare attentamente le brutte notizie. Terra dei vitelli, Italia per prima, metà Africa e metà Europa, come la cantava Rino, sconosciuta protagonista di “Ad esempio a me piace il Sud”. Canzone immobile, malata, condannata a una vita che è peggio della morte. Spesso ciò che si dice diventa più vero di ciò che è, spesso l’uomo non distingue più la realtà dalla messa in scena. E così era stato. Ed era quasi finito lo Stato. Per volere di Omero, chiunque egli sia, molte sono le Sirene da smascherare lungo il cammino di ognuno di noi.

“Cosenza, incantevole dama, che profumi di Mediterraneo e ti vesti di una leggiadra nobiltà senza tempo, con questi occhi di lucente sincerità voglio chiederti perdono! Infami messi giunsero al mio castello, colmi di menzogne, a scaldar di paura una mente che da sempre lottava contro il freddo. Dissero che oltre l’orizzonte visibile si nascondevano gli orrori del mondo, che non era saggio, per un giovane principe, avventurarsi al di fuori dalle mura. Sirene, vili sirene. 

Ma ora sorrido, perché ti ho guardata nelle pupille, profonde come il tuo passato e contornate dalla limpidezza delle tue fontane. M’inchino ai dettagli del tuo viso di signora, con qualche sublime ruga di antichità immersa nella vitalità di un’anima ancora immensamente giovane. 

Vicoli, giardini, palazzi… E poi scendo lungo un corpo dannatamente puro, scorrendo attraverso la grande arteria in cui si muove incessante la tua linfa vitale. Ragazzi uguali a me, madri con le premure che avrebbe la mia, anziani con le stesse valigie già pronte per il medesimo ultimo viaggio, nipotini egualmente incoscienti, incapaci di dare un valore a quel tempo di affetti che rapido fugge. I passanti nascondono le persone. 

Spesso ci limitiamo a conoscere l’involucro esterno dell’essenza, ma per fortuna, mia cara compagna di viaggio, non ti sei limitata a mostrarmi le tue vesti! Ho avuto il privilegio di conoscere, oltre ai luoghi, anche le anime di questi colli, di queste valli, di questa terra, fino alla dimensione più intima e profonda. La casa, la famiglia, l’amicizia e l’amore. Potrebbero sembrare delle banalità, se non provenissero da queste mie labbra, che oggi hanno assaggiato il mondo. E oltre le parole andranno i pensieri, le azioni, i desideri. Nel mio futuro vorrei una figlia con la tua grazia e il perché te lo spiego con l’arte: non saprei più guardare un De Chirico senza pensare a te, incantevole dama, vicina Cosenza”.

Era il 18 ottobre del 2012, è il ricordo del sogno di un giorno di metà autunno...

(M.T.)


IMMAGINE: Aria di sogno - Grazia Aimo 

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