mercoledì 5 settembre 2012

Viaggio a Roma


Il primo impatto
nella città eterna,
mondo distratto
ch'ancor governa
sullo stivale
che fu Impero
senza rivale,
d'orgoglio fiero.
Giù dall'Esquilino
per la via di Camillo
non Furio, ma Benso,
anch'egli nella memoria
degli eroi della storia.
E poi immenso
appar il sigillo,
maestro sul cammino,
di quell'ieri
d'apogeo
che fuga li altri pensieri,
è il Colosseo.
Il sogno dei Flavi
che si spegne
all'istante nell'insegne
con cui trionfavi,
oh Costantino,
che lì accanto
con rigor latino
e le vesti d'un santo
ponesti l'arco
del passaggio
a Cristo, al suo messaggio,
aprendo un varco,
dimentico di Giano,
nel tempo pagano.
E l'editto di Milano
sarebbe andato lontano!
Dai gladiatori
ai martiri, ai santi,
sin ai Papi e ai loro ori,
oh Roma sempre incanti
i popoli tutti,
vincenti o distrutti
ch'in questa vita
speran nell'altra infinita.
Sotto li occhi scolpiti
di Licinio in marmo duro,
vinti e stupiti,
ma per sempre al sicuro,
sfila il vicario
di quel Signore
che oggi muore,
quasi leggendario,
come ogni anno,
coi fedeli accanto,
col medesimo affanno
d'un venerdì di pianto.
Pochi passi in più
sotto un cielo blù
e si bagna lo sgaurdo
nel flusso beffardo
d'un Tevere padre,
acque ladre
di vita, distruttrici,
per quei che nemici
giunsero folli
a sfidare quei colli,
irrigati dalla Fortuna
ch'or illumina la Luna.
Ecco l'isola che fu ponte
per naviganti e pastori,
principianti attori
d'un aureo orizzonte,
che già brillava sulla chioma
della più bella delle signore,
anagramma d'amore,
Roma.
Di tutte le strade
avrebbe rapito
il percorso infinito,
armata di spade,
cemento e di cultura,
la forza che più dura.
S'è fatto ormai dì
e si riparte da lì,
giungendo alla porta
del dio d'ogni porta
ch'è tutto e niente,
bifronte e onnisciente.
Eccoci vicini
al tuo incrocio di destini,
eccoci Giano,
ecco che passiamo!
Corron millenni d'allori
tra il Campidoglio 
e i tricolori,
sbiadito orgoglio
d'una patria sul suo altare,
che ben serva a ricordare
chi il nostro mito
l'ha solo tradito.
E poi la Via del Corso
dove con qualche rimorso
si fa globale
la città che sparse sale
su Cartagine
e ora mostra l'immagine
d'una resa alla periferica
sconfinata America
e alle firme d'una Milano
ch'un tempo aveva in mano.
Attendendo Pechino,
ancora fan l'inchino
qui vicino, nell'aula in cui si trama,
a Palazzo Madama.
Non mi soffermo, ma tremo,
come un tempo fece Remo,
dinnanzi al potere
che gli umani fa fiere.
Vado oltre, scappo lontano
ed ecco il fantasma di Domiziano
nel suo stadio, grande icona,
oggi Piazza Navona,
in cui risuona dolce l'arte
colorando tele e carte,
mentre al centro nelle fontane
corrono acque ancora albane.
È un pomeriggio di primavera, 
col clima che sempre si spera,
e in un idillio di colori
s'arriva al Campo dei Fiori.
E s'avventa la riflessione
che smorza il sorriso
sul nostro viso
per la commozione
dell'attimo opportuno
rivolto al capo chino
d'un cupo Giordano Bruno,
testimone d'avaro destino.
Giustiziato,
perchè ardevan le sue idee,
reato,
più dell'ire manichee
e del suo corpo sul rogo,
quand'il suo ultimo sfogo
annegò nel fuoco
d'un medioevo ch'era poco
per la sua mente distante
e per l'animo sognante.
Un passato non troppo lontano
d'inquisizione,
di Vaticano,
d'Inferno per l'essere umano.
Riposa in pace, oh illuminato,
che giace ferito,
tramortito,
oggi il nemico che t'ha ammazzato!
Il passo si fa stanco, quasi si dorme
all'allungarsi dell'ombre,
con l'ultime ore
d'un sole che muore
il suo diurno viaggio
con luci da Caravaggio.
Ma con ciò ch'è più giusto
si presenta a noi Augusto
e porge a chi spera
il simbolo della sua era
e d'un sentimento che ci piace,
l'ara della pace.
Specchio della sua gloria,
sfoggio della vittoria
d'un ragazzino strano,
l'esile Ottaviano,
che forte del pensiero
fece suo un emisfero.
Riposa lì accanto,
senza onori, senza un pianto,
lui che fu Principe per primo,
occhi di ghiaccio, sguardo da mimo.
Solo,
erede d'affetti
e di difetti
all'ultimo suo molo.
Ci ripenso la notte
mentre disegno le rotte
dell'indomani che riparte
dal suo volto, che si fa arte.
Augusto di Prima Porta,
dall'alto della levata mano
il suo popolo conforta
e domina anche il Vaticano, 
custode dei Musei
di tutti gli altri dei.
L'Apollo, che bel vedere!
E così le Veneri
sopravvissute alle ceneri
dei templi pagani
distrutti dai Cristiani.
Ma spicca la gloria
degli imperatori,
perché anche se poi muori
puoi scriver la storia.
E così il grande Adriano
unito al suo Antinoo,
eterno bambino,
nell'amor più profano.
In quelle sale la mente è più viva,
come nel marmo la Gradiva
per chi la sogna camminare
e muta l'onirico nel reale.
Il culmine dell'emozione
è il ritorno alla Creazione,
dipinta d'un semplice mortale,
tanto finito, quanto geniale,
che in una stanza
ha racchiuso la danza
soave d'un arte umana,
divina
per fama,
Cappella Sistina.
Uscendo, compiaciuto,
faccio ancora un saluto
ad Adriano,
 che riposa poco lontano,
laddove un'angelica santità
lo salvò d'ogni avversità,
donando il nome a quello
che fu sepolcro ed è castello.
Ride intanto il fiume
bagnando con l'ironia,
gran lume,
tal bizzarra dicotomia.
Una volta in più la voce
del poeta si fa vera,
del giorno si vede la foce
"ed è subito sera".
I profumi della cena
illuminano la scena
d'una Trastevere agognata
dal desio d'un'abbuffata.
Sorride meschino
sullo sfondo l'Aventino
dimentico dei ribelli,
ch'i tempi non son più quelli
in cui sentirsi diverso
tra i colli,
oggi anziano e disperso,
mentre noi folli,
ubriachi di storia e convinzioni
parliam dell'antiche secessioni.
In un baleno
è il terzo giorno, il ciel sereno
e non conformi alla tradizione
c'inventiamo una Resurrezione,
di quel che fu il cuore d'oro
dell'Urbe, il suo Foro,
che pulsò politico
sin dal tempo mitico
e con licenza di religio
si nutrì dell'Ecumene
a cui diede le catene,
fosse gallo, scita o frigio,
vasto e vario
 fiero pasto dell'Erario.
Sesterzi e denari
per gli dei più precari
ma lo stesso venerati
dall'uomo e i suoi peccati,
oggi come ieri,
se vogliamo esser sinceri!
Nel mezzo il tempio
di chi subì scempio,
oh Giulio Divo,
dall'impeto vivo
d'un Senato irato
dall'esser tuo amato
d'un popolo alla fame
cui sogni e pane
donavi, facendo liete
le tue brame e la tua sete.
Di fiori e colori
gran sfarzo,
perch'ogni giorno muori
com'all'idi di Marzo,
sotto l'antica Curia,
il teatro della furia
di Cassio e Bruto.
Ti saluto.
E penso al loco dissacrato
da te disorientato
all'oggi poco cambiato,
dell'avaro Senato.
Attorno tante rovine,
confuse e vicine,
su cui getta l'ombra fioca
la colonna di Foca,
ultimo canto nell'agorà
di tal magnifica antichità.
Un sol su di loro,
non leone ma toro,
primavera insicura,
proietta la nostra avventura
sin alla casa delle vestali,
che fa inquietudine e paura,
oh nobili bestie sacrificali
dell'eterna follia,
umano vizio
dalla veste pia,
allor detta superstitio.
Sulla mancina
svetta ancor intera
la basilica vera
di Massenzio tetrarca,
poi salita sull'arca
d'una cultura mai arresa
che la Chiesa
passò all'era futura,
col ratto d'architettura.
E poi l'arco di Tito
col sangue costruito
della Città Santa
ch'il Tasso canta.
Sovrano glorioso,
ricordato illuminato,
ch'esaltar non oso,
nel suo breve regno
ai Giudei chiese il pegno.
Con sdegno, gran furore
e centurioni
mutò in oro il terrore
e donò all'Ade le ribellioni.
Con la gioia del lutto
e del boia il sorriso
stampato sul viso
fece preda di tutto,
il candelabro compreso,
trofeo dell'arreso,
poco dopo il disarmo
scolpito nel marmo.
E il pensante cammino
si volse al Palatino,
dove Romolo, coi suoi nei
d'omicida e tiranno
votato all'inganno,
fu accolto tra gli dei.
Una capanna modesta
da immaginar ci resta,
tra i dogmi e i perchè,
dimora del primo tra i re.
Medesimo palco
d'un egual falco,
invincibile attore,
Augusto Imperatore,
ch'in piccole stanze vermiglie
studiò le meraviglie
del sapere umano
e seppe andar lontano,
ma con moderazione,
mista a miele e assuefazione.
Lo spettacolo che piacque
ancor ci piace
nell'oggi in cui tace,
annegato nell'acque
d'un moderno
lungo inverno,
della voce sua il suono
e in muti marmi giace
senza vita la città
a cui fece dono
di pace
e genialità.
Il proscenio è il palazzo
d'un Domiziano
odiato e arcano
cancellato d'ogni arazzo,
che qui ha vinto tempo e spazio
nonostante la damnatio.
Al suolo raso
di Pandora il vaso
colmo d'Oriente
e d'un Sol Vincente,
casa di El Gabal,
cocchiere d'ogni mal
d'uno Stato d'ebbrezza
desidero di salvezza.
Una notte presto discesa
sul bimbo d'Emesa
Avito Bassiano,
ruggito lontano
del misterioso credo
nell'astro che ora vedo
annebbiarmi le pupille
di misteri e scintille.
Bello e dannato
e predestinato
a metter le mani
sulla corona dei Romani,
potere breve
come quello della neve
tardita
dall'incessante moto
d'una Terra divertita,
a noi noto,
attorno a quel dio
di cui entrambi pagano il fio.
E forse un raggio,
tra le nubi di burro
giunte a inquinar l'azzuro,
rimembra il suo coraggio
e mi ricorda ch'è la vista
a far sì che s'esista.
Corre il cervello
finchè un tramonto 'sì bello
da dirsi divin congedo
crea col suo carro Febo.
All'indomani volo
e non solo,
che porterò via ogni ricordo
anche dell'ultimo giorno,
fin'all'ultimo anno
che per me tesseranno
le ciniche Parche
al timon delle barche
d'un destino mortale
incerto e normale.
Musei Capitolini,
busti illustri
dai tratti sopraffini
ch'in secoli e lustri
han fatto vedere
i fissi sguardi del potere.
Dalla luce eterna
alla lux in arcana,
chi vince e governa
la storia emana,
in immagini di metallo
o con li scritti più segreti,
Marco Aurelio a cavallo
e sentenze e divieti,
negli scorci nel nero
del genio di Merisi,
sporchi e senza sorrisi,
tendenti al vero,
però filtrati dai riflettori
e da quel che decide
e spietato divide
chi è dentro e chi è fuori.
Frattura.
Discesi dall'altura,
marcia indietro
e si torna a San Pietro,
tra Conciliazione 
e apparente contraddizione.
Cerchiamo ancora l'arte,
che sgorga d'ogni parte
di questo regno
dall'alto disegno. 
Troviamo la Pietà,
magia razionale,
che penso surreale
e fiero d'ingenuità
il ricordo porto fin qui
degli orologi di Dalì.
Realtà che non sembra vera,
tempesta di reazioni,
sotto una maschera di cera
che copre un vuoto di convinzioni,
nude ossa,
come quelle di Giovanni,
oh ch'egli possa
senza affanni
dormir eterne ore
di flash e di rumore.
Santi in vetrina
o nel buio d'una cantina,
luccicanti prede
per gli ammaliati dalla fede.
Roma è anche questo.
E il tempo lesto
fuggiva veloce,
belva feroce
mai sazia ch'ha in fato
di far dell'oggi il passato.
Del canto li ultimi accordi
per me narratore
d'un viaggio che non si scordi,
rimato nel cuore.
Torniamo al mausoleo
di questo mondo latino
a cui ancor m'inchino,
miracolo Flavio, oh Colosseo,
dal grasso ventre mattatore
di schiavi e spade
al suon di applausi sul dolore,
porta dell'Ade.
Teatro doppio
dalla matrigna natura
di cappio,
che la figliastra tua abiura,
immagine pura d'un ieri
di cui comunque
si può andar fieri
qui come ovunque.
Il tetto che mai ti coprì
dal ciel che ti tradì,
oh Roma cara,
vacanza amara 
anche per noi si fece,
che nubi nere come la pece
e tonanti tumulti,
tanto simili a insulti,
ci misero in fuga veloci
verso altri porti e altre foci.
Nuovole nere,
inarrestabili fiere,
come quei Barbari affamati
che s'erano affrettati
a predar ogni respiro
del tuo Impero sotto tiro,
ormai stanco d'esser vecchio
e d'urlare nello specchio
per le rughe maledette,
aspre vendette
della fluida sorte 
ch'ogni cosa conduce a morte.
Sarai Odoacre, oh temporale
ch'il sipario hai chiuso
sul nostro andare
sognante e illuso.
Fine del viaggio,
fine della poesia
che di Roma è un assaggio
e di come l'ho fatta mia.

(D.D.)



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