domenica 14 ottobre 2012

Valzer dell'Impero

Prese per mano l'astuto Augusto,
troppo saggio e dal viso d'un giusto,
un'ingenua Repubblica anziana
dall'anima fiera, ciceroniana.

E l'invitò a ballare, con sguardo sicero,
questo Valzer dell'Impero.

"Lo spettacolo vi deve piacere,
applaudirmi sarà un dovere"
avrebbe voluto scrivere
con le parole del suo ultimo vivere.

Egli che vinto, fermo e ancor serio,
cacciato Ovidio scelse Tiberio.

Narra la storia ch'ogni delfino
è troppo vicino: amaro destino!

Allor il terzo, che portò la caliga
e in Senato la sagace quadriga,
era parso persino migliore
pria ch'in follia gli mutaron l'onore.

Accorse il buon Claudio, lo zoppo,
a prendersi Roma sul groppo.
E domò i benpensanti, ch'impresa!
Ma dinnanzi all'amanti conobbe la resa.

Poi ch'era spenta s'affrettò Nerone,
forse eccessivo per l'occasione,
a dar luce a una città senz'estro,
guidato d'un Seneca fido maestro.

Ironia della sorte, vox media,
tra gli scritti suoi trionfò la tragedia.

Pochi mesi per quella di Galba,
d'anima nobile, utile e scialba
e a Ottone e a Vitellio altrettanti,
poi fieri eserciti quasi danzanti
donaron l'Impero all'avara mano
del gran generale Vespasiano.

Quindi il buon Tito, terror d'ogni ebreo,
che vestì l'Urbe del Colosseo.

E con Plinio in quegli anni Pompei
sparì per volar sin ai tempi miei!

Venne poi Domiziano, primo Divo
asceso all'Olimpo ancora vivo.
Ei sincero mostrò che muore
la Libertà se v'è Imperatore.

M'ancora acerba la Roma serva
fece ricorso all'antico Nerva
e agli Ottimati col lucido piano
che ben premiò l'iberico Traiano.

Il figlio si sceglie, spietata verità
per il mondo che piano verrà!

L'oro di Dacia e la filosofia
del grande Adriano furon magia,
come il bacio al suo Antinoo
e lo sguardo ad Atene a mo' d'inchino.

Così il pio Stato d'Antonino
vide l'apogeo lungo il cammino.

Dal sogno s'ebbe il risveglio
già sotto Marco Aurelio,
dal cavallo nel bronzo scolpito
e negl'incubi barbari smarrito.

Fu Commodo un Ercole Amaro,
del crollo imminente ignaro,
parentesi quasi vuota
d'una melodia alla penultima nota.

La guerra impegnò i destrieri
finché Settimio insidiò i Severi
e di rigor abusò per chiuder la falla,
fornendo le chiavi a Caracalla
per unire con cotanta speme
nell'uno di Roma l'intero Ecumene.

Macrino l'asceso al pretorio,
ch'avea il gladio nel repertorio,
l'uccise a tradimento
e dell'era dei corvi segnò l'avvento.

Il povero Avito Bassiano
pregò un Sole fin troppo lontano
e la vita gli fu presto presa,
ch'il Palatino non potea esser Emesa.

E venne Alessandro, l'ultimo Severo,
ma cadde in un lampo di fine Impero.
Fu Massimino, detto il Trace,
a vertir nell'anarchia l'augusta pace.

Militari, veterani, legioni
vestiron la porpora dell'istituzoni.

Fallì Diocleziano, duellando col Male,
distratto dal folle sogno federale.

Quattro capitali, un disegno vano
ch'invece aiutò Costantino a capire
qual altra strada fosse da seguire:
un solo Dio, un Paradiso arcano!

Della Fortuna del Milvio il richiamo
udì. E seppe allor far cristiano
quel regno millenario
dal costume antico ormai leggendario.

Pensò forse a quel Teodosio ingrato
ch'avrebbe sputato al maestro passato,
bandendo dai templi gli dei pagani
e al figlio Onorio inchiodando le mani
a un Occidente da sacrificare
per Bisanzio, sul suo stesso altare.

Viva Arcadio e regni senza pudore
accanto al barbaro invasore
ch'ingordo verrà a predar l'Italia,
terra ch'eterna li animi ammalia!

(D.D.)


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